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ANTONIO GALIANO


Partigiano del Quartiere Stadera, operaio

Nato a Favara ( Agrigento) il 28/09/1902. Emigrato a Milano, visse nel quartiere Stadera, fu operao alla OM e diventò presto un punto di riferimento tra i lavoratori. Nel 1943 fu uno degli organizzatori dei grandi scioperi contro il fascismo che si svolsero a Milano e nel nord Italia nella fase più violenta della RSI. Per questa ragione venne arrestato e deportato a Mauthausen, dove giunse l’8 aprile, poi a Gusen. Antonio era un “triangolo rosso”, un pericoloso sovversivo, prigioniero politico, classificato schutz. A Mauthausen venne inserito in una squadra di disciplina, addetta al lavoro più massacrante nelle cave di pietra che hanno reso famoso il lager. Ma lui non si piegava alle tremende logiche della pura sopravvivenza e impavido svolse sabotaggi nell’officina Steyr di Gusen. La sua storia ci ha affascinato e indignato (per il finale). Abbiamo letto il suo diario e ci hanno colpito soprattutto alcune pagine. Un giorno nel lager un compagno si accascia esausto, ormai quasi morente, Antonio gli si avvicina e gli offre un po' di caffe, cioè di quella brodaglia scura che veniva distribuita agli internati. Ma le regole lo vietavano: nulla andava sprecato, nulla va regalato a chi non riesce più a ripagarlo con il suo lavoro, inoltre la solidarietà tra prigionieri è vista come una pericolosa minaccia. Per questo Antonio viene duramente frustato con il nerbo di bue, poi gettato in un laghetto (è febbraio) e poi colpito con pietre. Poi verrà portato in infermeria e dopo qualche giorno riprenderà il suo posto nella squadra di disciplina. Qualche mese dopo arriva la liberazione. Antonio racconta così la fine della guerra: il cibo scarseggiava e i deportati dormivano ai margini delle strade. Quel giorno, il 5 maggio, sembrava un giorno come gli altri. Le persone avevano fame, paura. Dicevano che sarebbero morti tutti. Ma alle 14 si sentì un urlo, “fertig krieg”, guerra finita. Pensavano fosse un tedesco impazzito, non sapendo che cosa volesse dire. Una volta visti i carri armati americani tutto gli fu chiaro: la guerra era veramente finita. I prigionieri scoppiarono in lacrime di gioia. Dei soldati tedeschi si misero contro una parete, come se aspettassero la fucilazione. Allora lui corse nelle cucine, per cercare qualcosa da mangiare, ma erano era già state depredate. A questo punto in lui prende il sopravvento un sentimento di vendetta e quindi si mette a cercare un'arma. Nella confusione e nel fuggi fuggi generale, trova un mitra americano e 350 cartucce e si precipita fuori in cerca di compagni. Il giorno seguente era molto ferito, ma considerava comunque il 5 Maggio come il più bel giorno della sua vita. A guerra finita Antonio ritorna a Milano, ritrova sua moglie e ricomincia a fare l'operaio. Ma le ferite fisiche e psicologiche di ciò che ha subito si fanno sentire: il corpo è debilitato, il morale è fiaccato; ben presto si accorge che non riesce più a sostenere i ritmi di lavoro e che sta perdendo la memoria. Allora comincia a scrivere un taccuino per non perdere il filo, per sapere giorno per giorno cosa ha fatto, dove è stato. Un giorno, siamo nel 1947, in fabbrica si sente stanchissimo, disorientato, vuole tornare a casa ma, non si sa come sbaglia strada, prende un treno e, non si sa come, arriva a Messina, senza più sapere dove si trova e perchè. Probabilmente cerca un posto in cui ripararsi e riposare entra in un cinema e lì verrà ritrovato, semi incosciente, da un ragazzo. Nelle sue tasche il taccuino. Viene portato in ospedale e, con qualche difficoltà, identificato. Dopo qualche giorno la sua vita finisce. A sua moglie non è stata riconosciuta la pensione come vedova di guerra perchè non si è potuto stabilire “con certezza” che la morte fosse diretta conseguenza della prigionia.
Foto di Antonio Galiano(secondo da sinistra)